Giampiero Bordino
La crisi finanziaria ed economica mondiale in corso ha certamente molteplici dimensioni e ragioni, che sono oggetto da tempo di riflessione e di dibattito. La sua complessità deriva dalla varietà dei fattori in gioco, dalla molteplicità degli attori (pubblici e privati) in campo, dalla dialettica delle ideologie e degli interessi che agiscono per affrontarla. Una strada possibile per tentare di ridurre questa complessità e dare un'interpretazione alla crisi è offerta, a mio parere, dall'analisi del tema dei beni pubblici. E' una strada ovviamente non esclusiva né esaustiva, ma può consentire da un lato, sul piano teorico, di comprendere meglio un aspetto fondamentale della crisi, d'altro lato, sul piano della prassi politica, di elaborare strategie e progetti di lungo periodo (oltre il breve respiro della congiuntura) per farvi fronte più efficacemente. Si tratta anche di elaborare strategie e progetti che abbiano capacità comunicativa e forza persuasiva presso l'opinione pubblica e che siano in grado di assumere visibilità adeguata nel dibattito pubblico. Il tema dei beni pubblici, e del loro ruolo decisivo per una reale possibilità di godimento dei beni privati, penso possa avere questa capacità e questa forza. E' anche un modo, voglio ancora osservare, di ripensare e aggiornare la tradizione del pensiero federalista, alla luce del nuovo mondo globale in cui viviamo.
La crisi attuale, in sostanza, ha origine da una inadeguata produzione e garanzia di alcuni fondamentali beni pubblici, o comuni, che sono le “condizioni di possibilità” sia del funzionamento dei mercati sia più in generale del funzionamento della società civile, o in altre parole della vita stessa delle persone: pace; sicurezza (nei molti e diversi significati che questo termine può assumere, non solo come ordine pubblico); stabilità monetaria e finanziaria; legalità e certezza del diritto; qualità dell'ambiente; salute; conoscenza; lavoro ecc. I beni pubblici (intesi, secondo convenzione, come beni non escludibili e non rivali, non producibili dal mercato) e i beni comuni (commons, beni non escludibili ma rivali nel consumo, come le risorse naturali, limitate e quindi passibili di esaurimento) sono alla base dell'economia e della vita sociale, come già aveva in qualche misura argomentato il “padre” dell'economia politica classica Adam Smith. Difesa militare, giustizia, moneta, strade e porti ecc.: senza tutto ciò, come potrebbero funzionare davvero i mercati e le società? E senza fari, un bene pubblico prodotto da autorità pubbliche, come potrebbero, osserva Smith, realizzarsi in sicurezza la navigazione e i traffici marittimi? Smith, apologeta del libero mercato, sapeva però benissimo che questo avrebbe potuto esistere e funzionare solo in presenza di una adeguata fornitura di beni pubblici, da parte di autorità pubbliche (lo Stato, in sostanza). Nella crisi mondiale attuale, due secoli dopo Smith, la carenza dei beni pubblici è diventata drammaticamente visibile ed è in qualche modo entrata nell'esperienza quotidiana e comune. Chi fornisce e garantisce davvero, dopo il declino del dollaro e del suo Stato-fornitore (gli Stati Uniti), una moneta stabile e condivisa per gli scambi mondiali? Chi regola e controlla davvero, in assenza di istituzioni regolative mondiali, le attività finanziarie, i movimenti di capitali che possono incidere pesantemente sui sistemi economici, sulla vita delle imprese e di chi vi lavora, e sui risparmi stessi delle singole persone? In un contesto di progressivo esaurimento delle risorse naturali disponibili, chi può regolare e garantire davvero una gestione di queste risorse in grado di consentire la sopravvivenza e una vita decente anche alle generazioni future? Le domande di questo tipo potrebbero continuare e le risposte, in base all'esperienza concreta e non per pregiudizio ideologico, sarebbero sempre le stesse. L'esperienza ci dice che la fornitura dei beni pubblici è inadeguata, che questa inadeguatezza mette in pericolo la possibilità di godimento dei nostri beni privati (in ultimo, alla radice, della stessa nostra vita), che gli Stati e le autorità pubbliche esistenti soffrono di una crisi crescente di legittimazione (con conseguenti disastri istituzionali e politici) per non essere più in grado di produrre e garantire in modo adeguato questi beni.
Credo che proprio il tema dei rapporti fra beni pubblici e beni privati possa dare forza e capacità comunicativa e persuasiva, nel dibattito pubblico, a strategie e progetti politici “progressivi” per affrontare la crisi e per costruire nuovi modelli di sviluppo (sostenibile, in senso economico, ambientale , sociale e istituzionale) e di società (inclusiva). A chi sostiene il proprio disinteresse per i beni pubblici, a chi si preoccupa esclusivamente dei propri beni privati, a chi pensa che tutti i problemi possano essere risolti secondo la logica del mercato, a chi teorizza o pratica l'”individualismo possessivo” si può facilmente segnalare quanto stretto sia, nei fatti, il legame fra presenza dei beni pubblici e possibilità di godimento reale dei beni privati. Se forse l'uno per cento della popolazione mondiale, quella iper-ricca, globalizzata e totalmente mobile, può sfuggire, o almeno tentare di sfuggire, ai vincoli da carenza di beni pubblici, l'altro novantanove per cento non è in grado di farlo. Può certamente illudersi (o essere illusa: potenza delle ideologie e dei media) di poterlo fare, ma alla fine la realtà è sempre dura come le pietre. Alla fine, ci si accorge dell'inganno, anche se spesso troppo tardi. Si può dunque sostenere, per usare un altro linguaggio, che vi è una solida base di convenienza alla radice di comportamenti cooperativi e solidali e, in sostanza, di una possibile etica pubblica orientata alla cura dei beni pubblici. Non si tratta di essere più o meno “buoni”, ma di essere più o meno intelligenti nella scelta della convenienza propria e di quella comune.
Nel mondo globale attuale (o meglio “glocale”, dato che locale e globale interferiscono l'uno con l'altro: il locale tende a globalizzarsi e il globale tende a localizzarsi), la produzione e fornitura dei beni pubblici deve necessariamente avvenire ad una pluralità di livelli, dal locale al globale appunto. Nessun livello, da solo, è più in grado di fornire in modo adeguato tali beni, a cominciare dal livello dello Stato nazionale, tradizionale e riconosciuto (nell'immaginario collettivo) fornitore di beni pubblici, dalla sicurezza esterna ed interna alla moneta, nell'età della modernità occidentale. Nel secolo globale, in particolare, nel quale flussi globali di capitali, merci, persone, segni e valori “perforano” i confini di qualsiasi Stato e territorio, e nessun “muro” può riuscire ad impedirlo (la rivoluzione tecnologica nelle comunicazioni e nei trasporti di fatto lo impedisce), l'assenza o carenza di un livello istituzionale e politico di pari livello è destinata inevitabilmente a produrre catastrofi. Sono catastrofi (militari, finanziarie, ambientali, sociali ecc.) che ognuno di noi può vedere o anche direttamente soffrire, ma che la “falsa coscienza” prodotta dal discorso pubblico prevalente nella politica e nei media tende a nascondere, o deviare, come fanno i movimenti populisti, su “capri espiatori” di varia natura: la congiura della finanza mondiale, l'invasione degli stranieri, la cultura cosmopolita (un'ingenuità da intellettuali...) e altro ancora.
Vi sono dunque, in sintesi, diversi livelli necessari di produzione e fornitura dei beni pubblici, tra loro interconnessi e interdipendenti: quello locale (i vari possibili livelli sub-nazionali, dal comune alla regione), quello nazionale, quello transnazionale o continentale, come nel caso dell'Unione Europea o delle grandi federazioni continentali esistenti, dagli Stati Uniti all'India; infine quello mondiale, senza la cui adeguata esistenza e funzionamento, data la globalizzazione in atto, tutti gli altri livelli sono destinati ad una parziale o totale impotenza. Si tratta di un quadro istituzionale e politico complesso,del tutto inedito nella storia umana, in parte esistente e in parte carente o assente, che sfida in modo radicale la nostra capacità di immaginazione istituzionale, politica e progettuale. Come pensare, come progettare, come realizzare la ripartizione dei poteri e delle competenze fra i diversi livelli? Quali beni pubblici, o quali dimensioni dello stesso bene pubblico, devono essere prodotti e forniti da ciascun livello, e in quali forme e modi? Quali foedera (patti) vanno costruiti fra i diversi livelli istituzionali e fra le diverse appartenenze e lealtà delle rispettive comunità di riferimento? Come realizzare un sistema fiscale multilivello che consenta di finanziare la produzione dei beni pubblici in forme coordinate e sostenibili? Come legittimare democraticamente, attraverso il consenso e il dibattito pubblico, i diversi processi decisionali, ai diversi livelli, in forme adeguatamente coordinate fra loro? Come costruire e comunicare una cultura condivisa che consenta di “pensare”, e dunque di accogliere, l'inedita complessità di una democrazia multilivello, ed anche multiculturale (inevitabile, data la mescolanza delle appartenenze e delle identità determinata dai flussi), declinata al plurale?
Tutto ciò, tutte queste domande, dovrebbero essere poste al centro del dibattito pubblico, per riuscire ad andare oltre il respiro corto delle contingenze e delle congiunture. Rispondere ai problemi (la crisi mondiale attuale, in specifico) significa anzitutto sapersi fare le domande, e poi tentare le risposte. Se ciò non avviene, come spesso non avviene, manca l'orizzonte dell'agire: ci muoviamo ciechi in una notte buia.